Il Paese
IL PAESE
Sull’ estremo limite della Valle Vitulanese, là dove il maestoso Taburno presenta le sue protuberanze in massi di roccia calcarea, levigate dall’acqua e dal vento, digradando dolcemente verso il torrente Ierino, tra il verde degli ulivi e delle viti e dei caratteristici boschetti cedui, è sistemato Campoli Monte Taburno, piccolo centro della provincia di Benevento.
Disposto a forma di “T” lungo la strada provinciale Vitulanese nel braccio più lungo e sull’antica strada, oggi Corso Vittorio Emanuele, sulla quale rimane il centro storico con l’antica piazzetta detta Ariella e la Chiesa di S. Nicola da Bari, questo centro, dopo i danni provocati dal terremoto del 1980 si è dato una nuova veste nella quale brillano molte abitazioni civili e gli uffici pubblici come la Scuola Elementare e Media, la Villa Comunale e la caratteristica pavimentazione dei marciapiedi e, su in alto, dopo il cimitero, l’albergo “Costa Rama”.
Ha numerose contrade sparse sulle propaggini del Taburno e nella Valle: San Nicola Vecchio, Ortelle, Marzano, Liberia, Grieci, Velarda, Pietra di Tocco, Trivella, Pantanelle ed il centro storico intorno all’Ariella e alla Chiesa di S. Nicola da Bari.
Il suo territorio confina con i Comuni di Vitulano, Apollosa, Tocco Caudio, Cautano, Montesarchio e Castelpoto e si estende su una superficie di Kmq. 9,76. La sua popolazione è di circa 1500 abitanti. Appartiene alla ASL n. 06 di Montesarchio.
La produzione è prettamente agricola. Vi si produce, infatti, un ottimo vino ed il biondo olio.
Altitudine s.l.m.: 450 mt
Denominazione abitanti: Campolesi
Beni ambientali: boschi di Macchia Mediterranea e il Fiume Ierino, affluente di sinistra del Fiume Calore, con sorgenti sul Monte Mauro.
IL PAESE – STORIA
Sull’ estremo limite della Valle Vitulanese, là dove il maestoso Taburno presenta le sue protuberanze in massi di roccia calcarea, levigate dall’acqua e dal vento, digradando dolcemente verso il torrente Ierino, tra il verde degli ulivi e delle viti e dei caratteristici boschetti cedui, è sistemato Campoli Monte Taburno, piccolo centro della provincia di Benevento. Disposto a forma di “T” lungo la strada provinciale Vitulanese nel braccio più lungo e sull’antica strada, oggi Corso Vittorio Emanuele, sulla quale rimane il centro storico con l’antica piazzetta detta Ariella e la Chiesa di S. Nicola da Bari, questo centro, dopo i danni provocati dal terremoto del 1980 si è dato una nuova veste nella quale brillano molte abitazioni civili e gli uffici pubblici come la Scuola Elementare e Media, la Fondazione Clinica del Lavoro, la Villa Comunale e la caratteristica pavimentazione dei marciapiedi e, su in alto, dopo il cimitero, l’albergo “Costa Rama”. Ha numerose contrade sparse sulle propaggini del Taburno e nella Valle: San Nicola Vecchio, Ortelle, Marzano, Liberia, Grieci, Velarda, Pietra di Tocco, Trivella, Pantanelle ed il centro storico intorno all’Ariella e alla Chiesa di S. Nicola da Bari. Il suo territorio confina con i Comuni di Vitulano, Apollosa, Tocco Caudio, Cautano, Montesarchio e Castelpoto e si estende su una superficie di Kmq. 9,76. La sua popolazione è di circa 1500 abitanti. Appartiene alla ASL n. 06 di Montesarchio. La produzione è prettamente agricola. Vi si produce, infatti, un ottimo vino ed il biondo olio. Per la sua origine piuttosto recente, nasce infatti come parrocchia nel 1711 e come Comune dell’Italia unita nel 1835, Campoli, pur essendo una contrada dello Stato di Vitulano iniziando dal 1456, non avendo l’autonomia di università, seguì le vicende delle università vicine di Tocco Caudio, di Cacciano Fornillo e successivamente di Vitulano. Per questo non potè fregiarsi di una arma gentilizia. Come Comune, poi, adottò la corona di alloro con stella della Repubblica Italiana. Per la sua partecipazione alla vita della Valle Vitulanese è giusto che abbia un suo stemma dal quale risulti la sua origine di centro aggregante di culture diverse.
Il Comune di Campoli del Monte Taburno ha un proprio stemma così come attualmente definito e riconosciuto nell’apposito Decreto del Presidente della Repubblica dello 03/07/1958 secondo la seguente descrizione: “ D’azzurro al massiccio montuoso al naturale sorgente dalla punta accompagnato in capo da tre stelle d’argento male ordinate ed attraversato da una fascia d’argento caricata dalle lettere maiuscole CAM di nero, accostate da due stelle d’azzurro. Ornamenti esteriori da Comune ”.
Il Gonfalone secondo la definizione del medesimo Decreto presidenziale è: “Drappo di colore azzurro, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma sopra descritto con l’iscrizione centrata in argento: COMUNE DI CAMPOLI DEL MONTE TABURNO. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto azzurro con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta e nastri ricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento”.
La motivazione della scelta dello stemma è contenuta nella deliberazione consiliare n.7 dello 02/03/1958: “Rifacendosi a tradizioni avite e alla maestosità del Taburno che il Comune di Campoli incastona nel verde splendido della sua corolla”.
LA VALLE VITULANESE
La Dormiente Sannita, con le sue vette maestose del Pentime, Camposauro, Cepino, In questo se di Camposauro Sette Serre, Sperara, Monte Drago e Monte Caruso fa da corona alla Valle Vitulanese, nella quale sono sistemati i centri di Foglianise, Vitulano, Cacciano, Cautano, Tocco Caudio e Campoli Monte Taburno. Questi centri, per lo più di origine medioevale, che hanno preso il posto degli antichi attività connessa 40 casali sistemati nella Valle durante il periodo romano e la prima dominazione barbarica, sono: Tocco, Ariola, Campoli, Sala, Valle dei Greci, Pietra di Tocco, Piana di Prata, Cautano, Cacciano, Fornilio, Trescene, Ca’ Vituiano, Mattaleoni, Vennerici, Taborni, Palmieri, Mantelli, Bracanelli, S. Croce, la piazza dei Franchi, Vincenzi, Fontana, Tammari,, S. Pietro, Fuschi di sopra e di sotto, Rosi. L’Arco dei Rosi, Cauci, Mercuri, Pietremilli, ladonisi, Foglianese, Sirignano, Leschito, Golini, Posto, Palazzo, Barassano, Oliveto, Cautano. Senza voler determinare l’antichità di origine e di importanza dei singoli comuni, credo sia pacifico affermare che durante il periodo sannitico e romano, non esistevano confini comunali e che gli abitanti delle nostre terre erano nomadi per cui ci hanno lasciato ben poche testimonianze che pero ci permettono di delineare nella storia il quadro dell’ antica Valle Vitulanese.
1) La Preistoria
Le zone montuose dell’entroterra campano sono spesso meta preferita di passeggiate domenicali di intere famiglie o di comitive sempre in cerca di verde, aria salubre e di deliziosi paesaggi. E’ noto lo sviluppo turistico, prevalentemente domenicale, del Camposauro, della Piana di Prata, del Cepino e del Taburno. Pochi sanno, però, che sovente quei luoghi sono stati frequentati nella preistoria da uomini dediti alla pastorizia, oppure hanno costituito un percorso obbligato o un valico montano per recarsi da una regione all’altra. La presenza di questi uomini è documentata dagli utensili e da altro materiale, per vari motivi abbandonati sul posto, che è possibile trovare in superficie spesso nei pressi di sorgenti o in luoghi dove si trova la materia prima per i fabbricati : la selce. Fra le zone della Campania intensamente legate alla presenza dell’ uomo preistorico, il Sannio è forse il meno conosciuto ed il meno studiato. Eppure le scoperte che si sono succedute nel tempo confermano la presenza dell’ uomo nella regione già dal paleolitico, come documentano i raschiatoi di Cerreto Sannita e l’amigdala proveniente dal terreno alluvionale di Guardia Sanframondi. Il neolitico è anch’ esso presente con gli interessanti manufatti rinvenuti in tutto il territorio, fra cui è notevole quello di una capanna nei pressi di Telese e di una palafitta nei pressi di Castelvenere. Ma più che a valle la ricerca dell’uomo preistorico sannita va condotta sui monti perché questi, costituendo l’elemento caratterizzante di tutta la regione, imposero le attività silvo-pastorali. Ed è proprio questo filone uomo-ambiente che dovrebbe essere seguito per poter delineare un quadro, anche se sommario, della preistoria sannita. I pascoli montani potrebbero rappresentare, quindi, per lo studioso, le note testimonianze di come le attività pastorali abbiano concorso a fissare l’uomo alla sua terra. In questo senso la Piana di Prata ( m.790 s.l.m ) insieme alla nota stazione preistorica di Camposauro (m. 1400 s.l.m.) e al monte Cardito (m.1150 s.l.m.) costituiscono un complesso di notevole valore paesaggistico e storico – archeologico. Queste verdi distese sono state, sin dal neolitico, legate alla transumanza e alle altre attività connesse al pascolo degli ovini, dei cavalli e dei bovini. Camposauro ha restituito una notevole quantità di oggetti litici oltre ad alcune suppellettili d’impasto risalenti all’ età del bronzo e custodite nel Museo Nazionale di Napoli. Poichè nella zona non esistono luoghi ove sia possibile reperire selce di una certa qualità e quantità è probabile che gli strumenti ivi rinvenuti provengono dalla vicina officina litica di Prata, situata nei pressi della sorgente di fronte all’albergo “Al Prata”. Qui esistono alcune formazioni di selce che si presentano sotto il duplice aspetto di liste e di ciottoli fluitati. Questa zona ha restituito abbondanti scarti di lavorazione consistenti in nuclei, di cui uno conservante in parte il cortice, molte lame ed alcune punte di freccia. Fra i frammenti di ceramica alcuni sono di colore rossiccio altri sono nerastri, lisci o no. La decorazione è costituita da strisce di ceramica sovrapposte. La Piana di Prata si trova fra il monte Cardito e il Monte S. Angelo di Camposauro (m. 1190 s.l.m.) l’officina litica si trova dunque lungo quella che nell’antichità dovette costituire la strada più breve fra la Valle del Volturno e la conca di Benevento. Oggi la Piana di Prata è facilmente raggiungibile sia da Frasso Telesino che dalla Valle Vitulanese. Il Marcarelli nella sua “L’oriente del Taburno”, ed il Generale Michele di Cerbo identìficano la Piana di Prato con il luogo dove avvenne l’episodio delle Forche Caudine. La toponomastica locale sembra dare un certo credito a questa ipotesi. Il Toppo del Malconsiglio, grosso sperone calcareo che si erge sulla piana, è ricordato dalla tradizione locale come un luogo legato allo storico evento. I romani, guidati dai consoli Spurio Postumio Albino e Tito Veturio Calvino, circondati dai Sanniti, guidati da Ponzio Telesino, vennero disarmati e costretti a passare sotto il giogo con l’impegno di fare la pace a dure condizioni ( 321 a. C. II Guerra Sannitica ). Non si può dire una parola conclusiva su questo argomento; comunque è certo che nella Piana di Prata, oltre all’accennata cava di selce, esistono tutt’ora un’ara dedicatoria e numerose tombe del basso impero lungo l’area dell’acquedotto di Cautano e nelle zone circostanti. Una ricerca archeologica sistematica nella zona, o almeno la segnalazione alle autorità competenti dei ritrovamenti archeologici, potrebbe risolvere numerosi dubbi e far luce su un periodo storico ancora oscuro. Da Prata, prendendo la trada per il Taburno, si arriva, dopo alcuni chilometri, sul Monte Cardito. La veduta, giù nella vallata, da questo monte è veramente stupenda ed altamente suggestiva. Anche qui, chi volesse, potrebbe intraprendere ricerche preistoriche, sia nella serra Trellica che in quella dei Carpini. La Serra dei Carpini ha le stesse caratteristiche morfologiche di Camposauro ma il paleosuolo dovrebbe trovarsi poco al di sotto dell’attuale livello di superficie. Più facili potrebbero risultare invece le ricerche nella Serra Trellica ove sul terreno smosso dalle talpe si possono ammirare frammenti di ceramica di impasto nero, di caratteristiche simili a quelli ritrovati nelle altre stazioni del Taburno.
2) La Pietra di Tocco
Sulla strada provinciale Vitulanese che da Campoli del Monte Taburno mena a Montesarchio, si erge maestoso un grosso masso di pietra che viene comunemente detto “La Pietra di Tocco”. Andammo, con un gruppo d’amici, ad ispezionarla nel 1977. La scalata della Pietra di Tocco si presentò impervia, un sentiero stretto e scosceso, oggi dominio degli animali, ci permise di raggiungere la vetta dalla quale potemmo ammirare il panorama. La vista spazia sulle valli del Sabato e del Calore e l’occhio nelle giornate limpide può spingersi fino ad Ariano, Lacedonia e Montefusco. Sulla vetta rimangono traccia di ruderi di antiche fortificazioni, e blocchi di pietra lavorati, squadrati e rotondi, i primi per le costruzioni ed i secondi forse antiche armi di difesa. Sul lato estremo che guarda la Valle Vitulanese è visibile una vasca, scavata nella roccia per raccogliere le acque. A mezza costa esiste una grotta naturale a forma di grande orecchio nella quale rimangono traccia di condotti per la ventilazione ed un camino scavato nella roccia, quasi a mascherare il fumo. Così come ora si presenta la Pietra di Tocco è un masso di roccia calcarea tenue. Numerose sono le spaccature. Gli agenti atmosferici hanno operato la corrosione. Tra i numerosi ciottoli, che impediscono la salita per 1’ impervio sentiero, si ritrovano punte di freccia in selce. La Pietra alla sua base è circondata da mura, oggi resti di ruderi soffocati dalla vegetazione. E’ ben visibile però l’unica porta di accesso nell’ area antistante la Pietra scavata tra due massi di roccia. Sui due pilastri di entrata non si trovano appoggi in ferro, segno che la sua chiusura doveva essere in pietra, probabilmente rotolata tra i due massi. Nel recinto della Pietra, delimitato dalle mura si trovano, come già a Camposauro, numerosi resti di ceramica di ogni tipo, dalla grigia alla lucidata, alla decorata, dopo la cottura, con motivi lineari ad incisione o semplicemente dipinti in ocra. In un saggio di scavo vennero alla luce pezzetti di ceramica fino alla profondità di due metri, segno di sovrapposizioni successive e di slittamenti del suolo. Attualmente l’area della Pietra di Tocco, perchè incolta, è proprietà della vegetazione spontanea e quindi non consente alcuna ricerca non organizzata. Ai piedi della Pietra, al centro del recinto, si nota una forte depressione del terreno; i vecchi contadini della zona assicurano che in tempi passati erano visibili i resti di un’antica costruzione attaccata alla roccia. Vi si poteva accedere solo attraverso un portale di pietra. Sul portale esisteva un’iscrizione da essi ritenuta illeggibile. Poco fuori il perimetro delle mura che circonda la Pietra esisteva una piccola chiesetta dedicata a S. Michele, ora andata in rovina. A fior di terra, nell’angolo perimetrale destro, a fondamento delle mura, si nota un reperto archeologico figurato, tuttora inedito e di sicura importanza. Sulla parte visibile si vedono le figure di un bucranio, di un cavallo, di una corona di fiori e resti di animali non identificabili. Benché sia difficile la datazione, tuttavia la presenza del bucranio in particolare e degli altri motivi ci consentono di attribuirlo al periodo del basso impero. La presenza del bucranio è un motivo religioso-militare o, come ritengono alcuni, solo un motivo religioso di culti non italici, quale il rito del Taurobolio importato dall’Oriente. L’area della Pietra di Tocco è di notevole interesse archeologico. I resti di ceramica di tutti i periodi, dalla non lavorata all’ornata, ci consentono di affermare, anche se la ricerca non ancora è iniziata, che nell’area della Pietra di Tocco esisteva un insediamento umano databile già al V-IV sec. a. C. Era questa,forse, la Rocca di difesa e di vigilanza dei Sanniti? Non ci è possibile affermarlo; comunque i resti di ceramica, di antiche costruzioni di pietra, di armi in selce ed in pietra, la posizione strategica della Pietra e la sua fortificazione, ci indicano che doveva essere una stazione importante per i Sanniti Caudini della zona. Era il luogo del rifugio durante i freddi invernali e nei momenti di pericolo. Con 1’avvento dei Romani nel Sannio le fortificazioni della Pietra di Tocco subirono la stessa sorte distruttiva delle altre città sannitiche. In seguito, nel Medioevo, il castello sulla sommità della Pietra venne ricostruito e dato in feudo da Carlo d’Angiò nel 1269 a Roberto di Ravello, signore anche di Tocco e di Sant’Agata dei Goti. Oltre ai rinvenimenti su Camposauro, alla Piana di Prata ed alla Pietra di Tocco va ricordata anche una stazione dello stesso periodo con un corredo di ceramiche sulle pareti del Monte Pentime, di resti preistorici del neolitico superiore presso la Palmenta, di oggetti ornamentali dell’età del ferro a Torrecuso.
3) Aree votive, iscrizioni sepolcrali e monete
Sia per i Sanniti che per i romani il culto dei morti era una esigenza sentita. Non si hanno notizie nella Valle di sepolture o tombe sannitiche; invece , del periodo romano se ne incontrano molte: nella contrada Sala, nell’area di Foglianise lungo il torrente Jenga, là dove correva la strada militare romana con le contrade Torretta, Iannilli, S. Maria la Peccerella e Palmenta, S. Marco e Cividale, in Vitulano a S. Pietro e ai Calci ed in Cautano specialmente nella Piana di Prata Nelle contrade di Campoli molto spesso si rinvengono laterizi, per lo più nel periodo del basso impero. Purtroppo oggi l’uso di trattori nell’ agricoltura sta distruggendo molte di queste tombe. Di iscrizioni funerarie nella valle se ne conservano molte. Il Momsen ed il Garrucci le raccolsero e le pubblicarono, ma ogni tanto ne affiora qualcuna inedita. Questi studiosi per il territorio di Campoli ne ricordano due:
1) Momsen: n. 1632
Iubeleie
M. F.
Matri
2) Momsen: n. 1739
p. Sartorio
p. Fil. pol.
Matri
Una terza mutila con poche lettere è stata da poco ritrovata. Di monete del periodo sannitico solo il Procaccini dice di averne viste con l’effige del Toro; del periodo romano se ne incontrano molte.
4) Insediamenti umani, condizioni ambientali e viabilità
I numerosi reperti archeologici rinvenuti nella valle ci consentono di affermare che la Valle Vitulanese era abitata fin dal periodo preistorico. Dei popoli italici nulla sappiamo. La storia inizia con la venuta dei Sanniti nella Valle. Il popolo sannita, come tutti i popoli antichi, trapiantato nel Sannio, non venne meno alla sua caratteristica di popolo nomade dedito alla pastorizia. Dalle 4 principali tribù sannite (Pentra, Caracena, Caudina e Irpina) la Caudina occupò la zona del massiccio del Taburno delimitata dai fiumi Isclero nella Valle Caudina e del basso corso del Calore. La Valle Vitulanese venne così a trovarsi nel cuore del Sannio Caudino ed anche se in essa non sorsero le grandi città come Caudium, Saticola, Maleventum e Telesia, si trovò in una posizione strategica di difesa dagli attacchi nemici, di autonomia di cultura e di produzione economica rispetto al restante territorio caudino. Forse il centro più grande fu Plistia, che alcuni identificano con Tocco Caudio. La Valle, per il suo clima e per la sua struttura geofisica, divenne la dimora naturale di un popolo dedito alla pastorizia ed all’agricoltura. I monti, con le piane del Camposauro e del Cepino, erano la logica “statio” estiva per il pascolo, mentre la valle ricca di acque ed attraversata da numerosi rivoli e dai torrenti Jenga e Ierino accoglieva pastori ed armenti nel periodo invernale. Qui la vita trascorreva serena, ed anche il commercio era fiorente. Il Rev. D. Laureato Maio nel suo studio sulle origini di Foglianise, nell’ asserire che il nome di Foglianise possa derivare da “Folium”, cioè il “Folium Oriens” della Tavola Baebiana, e che i Liguri Bebiani si siano stabiliti anche nella valle, ipotizza la divisione della valle in due “Fundus”: quello “Folianus” e quello “Lusianus” Fungevano da confine i torrenti Jenga ed il Vallone Iemale, ora detto di S. Antonio. Il territorio a Sud, con gli odierni paesi di Tocco, Campoli e Cautano-Cacciano, apparteneva al “Fundus Lusianus”; il territorio a nord, con i paesi di Vitulano e Foglianise, apparteneva al “Fundus Folianus”. L’iscrizione alla Via Silvano, del 236 d. C., di Saprio Secondo, che si trova alla confluenza del torrente Jenga con il Vallone Iemale nella zona detta “Muliniello” o “Ciesco d’oro” al confine tra Cautano e Vitulano,fa riconoscere forse, in costui un discendente di quel Satrio Secondo, protetto di Seiano (31 d.C.) del quale si parla negli Annali di Tacito (An. IV 34) costretto a rifugiarsi nella valle quando fu scoperta la cospirazione di Seiano contro l’imperatore Tiberio. L’ iscrizione sepolcrale dedicata da Marco Caucio a suo padre Quinto Caucio della tribù stellatina, dalla quale il nome della contrada in Vitulano, ci permette di rilevare uno stazionamento germanico nella Valle. Tacito, infatti, nell’XI libro degli Annali ricorda i Cauci come abitanti della Sassonia e di Brunsvich, e così anche Svetonio : “Claudio Gabinio Secundo, Chauciis, gente germana, superatis, cognomen Cauchiis usurpare concessit”. Inoltre la contrada detta “Grieci” o dei greci, è testimonianza certa di un insediamento greco nella zona, forse al tempo dell’imperatore Costante II (611-668). Della venuta dei longobardi, degli spagnoli e dei francesi parleremo in seguito. Da questi dati si può desumere l’importanza della Valle Vitulanese dai primi stanziamenti italo-sannitici alla caduta dell’impero romano. Infatti, nonostante che la Valle fosse tagliata fuori dalle grandi vie di traffico e di commercio, dato chela Via Appia e la via Latina costeggiavano appena, tuttavia dal periodo sannitico dovette avere una sua particolare importanza strategica. Durante le guerre sannitiche, l’ultimo baluardo contro i romani rimase il Sannio caudino e quindi la Valle, per cui quando i Romani nel 268 occuparono il Sannio, memori della umiliazione delle Forche Caudine e fondarono la nuova città di Benevento, in un luogo dalla antica Maleventum, tracciate le due strade consolari Appia e Latina, trasformarono la Valle Vitulanese in una guarnigione permanente, il luogo “La Torre” lungo il torrente Jenga e “Ponte Rotto” sembrano confermarlo, a difesa delle strade consolari e della vicina città di Benevento. Tracciarono un braccio di strada lungo il corso del torrente Jenga collegando così l’Appia, cioè da Caudium (Montesarchio)per la valle fino alla confluenza del torrente Jenga con il Calore dove esisteva il ponte della “Maurelle”, che conserva ancora la dedica “M. Munatius M. F.”, sul quale passava la Via Latina per Benevento e Telese. Nei pressi dei tre piloni del ponte delle Maurelle sotto Castelpoto si notano resti di un secondo ponte che attraversava il torrente Jenga, sul quale passava la strada militare della Valle Vitulanese. E’ proprio sui terreni circostanti di questa strada che si trovano ubicati la maggior parte dei reperti archeologici ritrovati. Lo stanziamento di una legione romana nella valle, anche se di veterani, apre orizzonti nuovi sullo sviluppo edilizio e sull’economia. Infatti le legioni, specie quelle di veterani, dovevano provvedere da sole a tutto l’equipaggiamento, non solo militare producendo armi, ma vestiti, sandali e stoffe per altre legioni. Più fortunati erano quei veterani che ottenevano dall’ imperatore l’assegnazione di un fondo sul quale costruivano la loro villa. E’ il caso del detto “Caucius” che si installò sotto il monte Pentime in Vitulano. Con questo stazionamento si incrementarono demograficamente l’intera valle e si sviluppò la nuova economia, che pur continuando ad avere come base la pastorizia e la produzione di olio e vino, incrementò l’artigianato del ferro, del lino e del legno. L’antica strada della valle rimase, però, quella della transumanza, o tratturo regio come poi si chiamerà. Entrava nella Valle proveniente da Frasso per il monte S. Angelo, biforcandosi nella piana di Prata verso Camposauro e verso Cautano-Fornillo-S. Antonio-Foglianise-Ponte e da S. Antonio verso la “Serra” per Torrecuso e la “Cappella” per Telese. Oltre ai fertili pascoli e alle selve, la valle è sempre stata ricca di sorgenti. La più celebre è quella della piana di Prata, oggi incanalata verso Benevento; tuttavia ne esistono di minori che rendono fertile il suolo e pescosi i torrenti Ierino e Jenga. Ricordiamo in Vitulano la fontana Reale, di S. Pietro, di Cortedonica, di Foggiano e della Pezza; in Foglianise la fontana Cantera, dei Santi, l’Acquara, Palazzo, Zampelli e Sirignano. Nei pressi di queste fontane vennero innalzati iprimi luoghi di culto e le prime ville.
5) Le are sacre
Il costume degli antichi voleva che i sacrifici alle divinità venissero fatti dopo le rituali purificazioni. E’ questo uno dei motivi che vede sorgere nei pressi delle sorgenti i tempietti dedicatori. La ricerca di un collegamento con le divinità che stavano “in alto nei cieli”, portò a scegliere anche quelle aree poste in alto ma accessibili, come nella nostra valle sono i “cieschi” o massi di pietra sporgenti dalla terra. Esisteva in Vitulano, vicino alla sorgente di S. Pietro, un tempietto dedicato alla “Dea Fortuna Folianensis”. Sull’area della Chiesa di S. Croce un tempietto in onore di Minerva; sull’area di S. Maria Maggiore un tempietto in onore di Cibele; in Foglianise, un tempietto dedicato ai “Sabini” nell’area detta “Fontana dei Santi” e poi Chiesa Parrocchiale di S. Ciriaco, un tempietto alle divinità Patrie nella contrada lannilli, un tempietto al dio Silavano Lusiano al Ciesco d’Oro. Risultano così idonee le condizioni per lo sviluppo. L’unico centro abitato continua ad essere Tocco e per la nascita degli altri casali bisognerà attendere la venuta dei longobardi che da fieri guerrieri si trasformeranno in accorti artigiani, agricoltori e pastori Per Campoli, invece, le prime notizie sulla contrada si incontrano nel periodo normanno. Certamente, però, l’intera area era picchettata da “masserie” romane intorno alle quali poi si sviluppano gli odierni casali di Campoli.
CAPSOLUM O CAMPORA : Ipotesi di un nome
Forse è proprio di questo periodo la prima notizia relativa al casale di Campoli. Nel catalogo dei baroni normanno, redatto al tempo di Guglielmo il Buono (1177 – 1183), vengono enumerati i “milites” di Tocco: Adam di Tocco – Sculcus – Achilles – Ugulocta – Petrus Ravelli e Rainonus de Prata. A questi “milites” fanno seguito un certo Paldu de Zurbano e un Goffridus de Galluccio. Per questi ultimi il catalogo così si esprime: “Goffridus de Galluccio dixit quod tenet Gallucium quod est feudum 11 militum et de medietate eum quod est feudum I militis cum hoc quod tenet ab eo Petrus Girardi apud Capsolum et de hoc quod ipse Goffridus in Mossino cum augumento obtulit milites VIII et servientes L.” Goffredo di Galluccio disse di avere Galluccio come feudo di due soldati ed inoltre in suo nome Petro Girardi aveva un feudo di un solo soldato “apud Capsolum”. Gli storici hanno escluso che questo feudo di “Capsolum” possa trovarsi nella Valle Vitulanese. Noi invece riteniamo che si tratta proprio del nostro Campoli in quanto non è tanto strano che lo scrivano del catalogo si sia dimenticato di aggiungere la barretta abbreviativa della lettera “m” sulla “p”. In genere in quel tempo le consonanti terminanti con “m” ed “n” venivano sempre abbreviate. Per cui la parola suonerebbe “Campsolum”, da cui Campoli. Inoltre, perchè aggiungere questa contrada tra i feudi della Valle di Tocco se apparteneva ad altra zona? Tra le pergamene di 5. Maria delle Grotte, costruita sulla montagna di Vitulano tra il 960 e il 964 dai principi longobardi di Benevento, se ne conserva una del gennaio 1181, anno XVI del regno di Guglielmo 11, sulla quale Giovanni Rosaldeprandi e suo nipote Giovanni Basvino vendono a Barbato figlio di Barbato , “petiolam terre in loco ubi Campora dicitur”. Il luogo “Campora”, dove viene venduto il pezzo di terra, dagli studiosi Meomartini e Marcarelli non viene indicato con il paese Campoli perchè inesistente quest’ ultimo in quel periodo e mancano altri riscontri per la identificazione. Noi concordiamo con tale ipotesi perchè il “Campora” località si trova in altro territorio, tuttavia mi preme far notare che esiste una coincidenza neifonemi del tempo, poi cambiati, molto singolari. Infatti nello stesso cartario viene nominata la località di “Biturano”: l’odierna Vitulano. Il cambio della “R” con la “L” in questa parola, applicato alla parola “Campora” ci dona “Campola”. Il problema del nome rimàne aperto, tuttavia almeno queste due ipotesi aprono uno spiraglio nelle ricerche degli studiosi.
DAGLI ANGIOINI AL XVI SECOLO
Dopo la battaglia di Benevento Carlo d’Angiò, con l’atto di Foggia del 2l.4.1269 dona la contea di Tocco a Roberto di Ravello, nobile di Tocco figlio di Pietro ricordato nel catalogo dei Baroni normanni. Costui aveva combattuto al fianco di Carlo nella battaglia e certamente lo aveva consigliato sulla strada da seguire da Telese a Benevento prima della battaglia. Nella donazione si parla di “Castrum Tocci cum casalibus” e così in tutti i documenti successivi fino al Cedolario Angioino del 1322, dove si dice “ Toccum cum casalibus uncia 50, tarì 15, grana 7”. L’intera zona viene assegnata al Giustiziario del Principato Ultra e vi rimane fino unità d’Italia. Il 27 novembre 1351 papa Clemente VI ordina a Pietro de Pino, arcivescovo di Benevento, di dare il possesso del ducato beneventano al rettore della città di Benevento secondo i nuovi confini stabiliti. Tocco e l’intera valle vitulanese passano al ducato della chiesa e vi rimangono fino al 1383 quando Guglielmo di Tocco, figlio di Pietro ritorna ad essere il signore della Valle, mantenendone il possesso fino al 1417 quando Stanislao, re di Napoli, lo aggrega alla corona. Il 5 maggio 1417 viene venduto dalla regina Giovanna lI al francese Rogioletto Leyoye e nell’ atto di vendita per la prima volta vengono nominati Tocco e i suoi casali di Vitulano, Cacciano, Foglianise e Sala. Dopo soli tre anni, però, il 1420 nel feudo viene rivenduto ad un altro francese, Baldassarre de Larhart, cognome italianizzato in Della Ratta. Nell’anno 1456, il 5 dicembre, un terribile terremoto distrugge completamente Tocco ed i suoi casali. L’intera valle viene rasa al suolo tanto che non ci rimangono costruzioni del periodo antecedente. E’ proprio questa l’occasione che pone fine alla locuzione “valle di Tocco”, iniziando l’uso di “Valle di Vitulano”. I Della Ratta continuano ad essere, però, i signori della Valle fino a Caterina Della Ratta e Matteo Acquaviva, i quali la vendono nel 1506 a Carlo Carafa, marchese di Montesarchio che aveva sposato Eleonora della Leonessa. A Carlo Carafa succede il figlio Gianvincenzo che per essersi schierato con Francesco I, re di Francia, contro l’imperatore Carlo V, e per aver permesso alle truppe francesi, comandate da Odetto di Fois signore da Lautrec, di stanziarsi nella zona, dopo la vittoria di Carlo V del 23 luglio 1532 viene privato del feudo, poi concesso al marchese di Vasto, Alfonso d’Avalos d’Aquino, luogotenente generale dell’esercito imperiale nell’ assedio di Napoli del 1529. Alfonso d’Avalos sposa Maria d’Aragona dei duchi di Montalto che porta il titolo di principe per se ed i suoi successori sul feudo di Montesarchio con i suoi casali tra cui Foglianise. Ad Alfonso succede, nel 1546, Ferdinando Francesco d’Avalos e fino al 1560 Carlo d’Avalos che sposa Isabella Gonzaga. Nei documenti di questo periodo non si parla più di Valle di Tocco ma di Valle di Vitulano”.
LO STATO DI VITULANO
Dopo il terremoto del 1456, rasa al suolo Tocco, i feudatari non dimorano più stabilmente nella contea di Tocco ma esercitano la loro signoria da lontano. Distrutto il castello di Tocco si pensa di costruirne uno a Vitulano, contrada che aveva acquistato importanza sia per la popolazione fiorente che per le famiglie nobili che avevano scelto questa contrada come loro dimora. Con la costruzione del castello anche la signoria feudale si sposta in Vitulano, ma non ottiene mai l’appellativo di contea o baronia e semplicemente viene detto “Stato di Vitulano”. Il possedimento feudale, come aggregato di numerosi comuni o università, veniva attribuito dal Regio Fisco ed il titolare aveva il titolo di “nobile signore” senza prerogative feudali. Ogni università potè scegliere i suoi “eletti” in genere due, dei quali uno aveva la funzione di Sindaco. Lo Stato di Vitulano comprese le università di Tocco, Foglianese, Cacciano-Cautano, S. Maria e S. Croce. Ogni università scelse il suo stemma o arma che andò a formare l’arma inquartata dello stato: per Vitulano: un vitello in campo verde sormontato da una croce greca coronata; per Tocco: un leone con un ramoscello tra le zampe; per Foglianise: tre foglie su tre monti; per Cacciano – Cautano: tre stelle e tre pali o fasce a perpendicolo. Frattanto nel 1560 Ferdinando Francesco d’Avalos vendette la sua baronia a Morcone Scipione Carafa. Nell’atto di compravendita della baronia si parla di una rivoluzione avvenuta in tutta la valle contro il Signore feudale che aveva voluto imporre nuove e più pesanti tasse. Il nuovo signore addirittura volle decurtare i diritti del nuovo stato ed imporre nuove tasse. Cosa che fece con i soldati, i quali bruciarono interi casali, distrussero famiglie, mutilarono persone, costrinsero a lavori senza paga, abolirono i diritti delle università. Ma il popolo non stette a guardare e con rivoluzioni e saccheggi costrinse il Carafa a vendere il 10 aprile 1568 la baronia a Fabrizio Sellaroli di Simone, nemico acerrimo del Carafa ma anche del popolo che angariò fino al 1611 quando vendette a Geronimo Canaviglia, marchese di 5. Marco dei Cavoti, il quale nel 1615 ilprimo gennaio lo rivendette a Giovanni d’Avalos d’Aragona per 59.000 ducati. I d’Avalos lo tennero fino al 2 agosto 1806 quando Giuseppe Bonaparte abolì il feudalesimo in Italia.
SALA E LA SUA CHIESA DI SANTO STEFANO
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Il Marcarelli nel suo libro “L’ Oriente del Taburno” ritiene che gli abitanti di Sala dopo il terremoto del 1456 abbandonarono questa contrada per dare vita al nuovo paese di Campoli. Mancano i dati per confermare questa asserzione. Tuttavia da questa contrada prende il nome certamente la famiglia Sala, il cui principale esponente rimane il musicista Nicola Sala, nato il 1713 e morto in Napoli nel 1800. La contrada Sala attualmente è uno dei casali del Comune di Cautano ed è ubicata sul costone che divide i Comuni di Campoli e Cautano a mezza via tra i due, ma in posizione di vedetta sull’intera valle vitulanese. Nel suo territorio molto spesso si rinvengono tombe del periodo romano, tuttavia come contrada la si trova in un documento del 1201 del Monastero di S. Maria delle Grotte per la prima volta e dopo nella vendita della baronia di Tocco il 5 maggio 1417 dalla regina Giovanna II al francese Rogioletto Lepoye e successivamente nel 1420 nella vendita effettuata da costui a Baldassarre della Ratta. Questo casale aveva anche una chiesa dedicata a S. Stefano. Era una cappella rurale di una sola aula. Nel 1578 l’arcivescovo di Benevento, Massimiliano Palombara, la donò al collegio di S. Bartolomeo di Benevento con i suoi possedimenti, tra cui una vigna ed un terreno della contrada di Campoli. La donazione venne poi confermata nel 1657 dall’arcivescovo Foppa. Le entrate di questa cappella constavano di ducati 17.2.2. con una uscita di grana 20. Però in questa data della cappella non rimanevano che le mura perimetrali affioranti dal terreno, segno che non era stata ricostruita dopo il terremoto del 1456. Nel secolo XVIII in questa contrada possedevano beni con abitazioni le famiglie Mazzella di Vitulano e Marcarelli di Tocco.
LA CHIESA DI SAN NICOLA
Il 20 febbraio 1687 il notaio Sebastiano De Filippo di Vitulano per comando di don Giuseppe Verrusio, arciprete di S. Croce in Vitulano, ascoltati Mario, Bartolomeo e Tommaso Capiraso, procuratori, e Bartolomeo ladanzo, vecchio del luogo, scrisse l’inventario dei beni della chiesa, sotto il titolo di S.Nicola da Bari di Campoli, casale di Cacciano Fornillo della Valle di Vitulano. La chiesa, ad una sola aula rettangolare, misurava palmi 15 di altezza, 34 di lunghezza e 92 di larghezza. Vi si accedeva per una porta costruita in pietra nel 1682 sulla quale vi era l’affresco di S. Nicola. La chiesa ubicata nella parte bassa del casale aveva sul davanti e sul retro la strada pubblica, però proprio davanti alla chiesa rimaneva il Cimitero Sull’altare maggiore, dedicato a S. Nicola, vi era sistemato in un baldacchino il dipinto raffigurante il Santo con i bambini, mentre in alto vi era il Padre Eterno che sorreggeva Gesù in Croce. Intorno all’altare vi erano gli affreschi dei quattro evangelisti. Sulla parete di sinistra, in un arco, vi era l’affresco della Madonna Annunziata, con su in alto l’Ecce Homo, mentre a destra sempre in un arco in alto un angelo, ed in basso la Madonna dei sette dolori. Nei due archi di fondo poi vi erano gli affreschi della Madonna del Carmine e dell’Aro. Sul lato sinistro della chiesa vi era il campanile con una campanella di 15 rotola. La chiesa aveva un censo di ducati 2.0.83 sui beni di Salvatore, Tommaso, Marino, Marco, Angelo e di Domenico Capiraso. Riscuoteva 28 misure di grano da Angelo, Camilla, Salvatore, Matteo, Geronimo e Antonio Caporaso. Possedeva una casa in mezzo al casale per il sacerdote officiante ed una casa fittata a corlini 3.10 l’anno. Inoltre dava in fitto annuale buoi, giovenche, asini ed altri animali per un introito totale di ducati 76.6.7. Per il mantenimento della chiesa, per la celebrazione di S. Messe e per tasse aveva una uscita di ducati 26. Il terremoto del 1688 provocò dei danni anche in questa chiesa. Cardinale Vincenzo M. Orsini ne autorizzò il restauro e poi la consacrò con il suo altare il 4 novembre 1710, decretandone il mantenimento “dai casalisti” come da atto del 14 novembre 1710 rogato dal notaio beneventano Francesco Imbimbo. I1 3 ottobre 1711 ne decretò lo smembramento dal territorio di S. Andrea di Cacciano Fornillo elevandola a sede vicariale curata perpetua e la dotò anche della casa canonica a lato della chiesa.
LA NUOVA PARROCCHIA DI SAN NICOLA
Il 3 ottobre 1711 il cardinale Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, “con la sua solita rapita carità e pietà” decise di smembrare il territorio, del casale di Campoli dalla chiesa arcipretale di S. Andrea di Cacciano e di creare una nuova parrocchia nella chiesa di S. Nicola da Mira di Campoli. Le ragioni dello smembramento le precisò lo stesso cardinale Orsini dicendo “La lontananza di due miglia circa, a cagione delle vie tanto aspre e difficili, per lo gran torrente perenne, detto Ienga, ed altri torrenti fra mezzo, de modo che in tempo di inverno i parrocchiani non potevano andare ivi sentir messa, ricevere i sacramenti della penitenza, dell’eucarestia, e ritrovarsi pronti in tempo congruo a divini offici: nè l’arciprete andare ad assistere gli infermi e ministrar loro detti sacramenti e da ciò giornalmente seguivano danni e scandali e perciò il d. Emo Arcivescovo concedette alle suppliche de casaliti questa dismembrazione per ovviare a mali ed al pericolo delle anime”. Con questa divisione venivano anche elencate le preminenze e le prerogative che l’arciprete di Cacciano conservava sulla chiesa vicariale di Campoli, cioè :
– Che rimanga sempre in perpetuum salvo ogni ius preminenziale all’ arciprete e successori di modo che detta chiesa vicariale resti sempre filiale, con la facoltà all’ arciprete di far processioni di esso casale e di portare in esso la croce arcipretale.
– Che il Vicario Curato ogni anno in pegno di soggezione e filiazione nel dì di S. Andrea apostolo debba presentare ai medesimo arciprete e successori in perpetuo un cero di libre due almeno.
– Che rimangano a beneficio di detto arciprete e successori ogni anno tomoli 13 e mezzo di grano di decima.
– Che sia lecito all’ arciprete una volta ogni anno assistere personalmente ad un matrimonio da contrarsi fra gli uomini di detto casale, conscio però il detto Vicario Curato al quale si pagano 1’ oblazioni e gli emolumenti.
– Che ad esso arciprete sia lecito battezzare in detta chiesa Vicariale due volte all’anno, docto nomen dicto vic. Curatomodo ut supra in preterito numero.
– Che nei due sabati di Pasca di Resurrectione e Pentecoste gli infanti che nascano nelle settimane di detti sabati, ogni anno si portino a battezzare nella chiesa arcipretale purchè non vi sia qualche pericolo o impedimento.
Il territorio assegnato alla nuova parrocchia era quello circoscritto intorno al casale di Campoli, confinante con la contrada Sala, fiume Ienga e Pietra di Tocco. La divisione orsiniana venne osservata per lunghi anni. La prima controversia la si ebbe nel 1896 al tempo dell’arciprete Domenico Santilli, il quale fu costretto ad inoltrare denuncia alla Curia arcivescovile beneventana perché 1’ economo curato di Campoli, don Gaetano Micera, per 4 anni si era rifiutato di dare le prestazioni, adducendo come motivo di essere solo il sostituto dell’anziano parroco titolare. L’arciprete di Cacciano dimostrando che il detto Micera amministrava in proprio i beni della parrocchia otteneva il pagamento delle prestazioni. Dette prestazioni sono rimaste sino alla 2” guerra mondiale. Oggi il parroco di Campoli continua a portare due libre di cera nella festa di S. Andrea in segno i filiazione.
IL MONTE FRUMENTARIO
Tra le opere pastorali del Card. V. Maria Orsini, oltre alla ricostruzione dopo il terremoto del 1688 e la sistemazione dei beni ecclesiastici con i quali le chiese dovevano mantenersi, nel campo del sociale la sua preoccupazione fu quella di sconfiggere l’usura e gli usurai e di debellare la povertà. A questo scopo in tutta la vasta arcidiocesi fondò 103 Monti Frumentari nella Valle Vitulanese e tra questi, quello di Campoli, ubicato nella Chiesa S. Nicola. Il Monte di Campoli venne dotato di un fondo che non doveva superare il prestito di 100 tomoli di grano. Questo veniva prestato ai richiedenti e restituito poi dopo la raccolta. Il grano in eccedenza veniva venduto ad un prezzo stabilito per tutta la diocesi ed il capitale, salvo le spese, veniva reinvestito. Il Monte Frumentario funzionò per circa due secoli e fu alla base dello sviluppo agricolo di Campoli e dell’intera zona. Già nel 1717 il Monte di Campoli aveva raggiunto il fondo stabilito di 100 tomoli di grano annuali e funzionava a pieno ritmo.
DAL XVIII sec. AI GIORNI NOSTRI
In un diploma del 16 dicembre 1611, nell’ aggiudicazione dello Stato di Vitulano a Francesco Canaviglia per 55.000 ducati, vengono enumerate le sette università della Valle con gli antichi 36 casali. Manca però il casale di Sala ed il suo posto come casale e come università è preso da Campoli e, come riferiscono il Sacco ed il Giustiniani, Campoli è la sesta. Dalla descrizione di Giustiniani abbiamo il seguente quadro:
Il 4 maggio 1811, occupato militarmente il regno di Napoli, Giuseppe Bonaparte divise il regno in 14 province. Della provincia del Principato Ultra con distretto in Avellino, si costituirono nel Circondario di Vitulano 10 comuni e, tra questi, Campoli.
Con la restaurazione borbonica e la legge del] maggio 1816 i 10 comuni della Valle continuarono ad avere la loro autonomia. In questo periodo Campoli aveva una popolazione di 574 abitanti.
Il 15 maggio 1861 il nuovo parlamento italiano approvò a grande maggioranza la costituzione della nuova, provincia di Benevento e Campoli con l’intera valle vi venne aggregata. Al 19 luglio 1868, essendo sindaco di Campoli Angelo Caporaso e Segretario Comunale Nicola Zannari, vi erano i seguenti capi famiglia:
Cosimo Viglione parroco d’anni 56,
Pellegrino Caporaso fu Saverio d’anni 43,
Arcangelo Mongioli d’anni 75,
Michelangelo De Manin d’anni 60,
Eugenio De Simone d’anni 85,
Pellegrino Caporaso fu Francesco d’anni 70,
Marianna Francesca d’anni 72,
Antonio Caporaso d’anni 65,
Nicola ladanza fu Ignazio d’anni 80,
Gioacchino Ciotta d’anni 60,
Pasquale ladanza d’anni 67,
Fortunato Grasso d’anni 50,
Pietrantonio Barbato d’anni 60,
Cosimo Grasso d’anni 49,
Giuseppe Grasso d’anni 50,
Luigi Del Grosso d’anni 48,
Domenico Caporaso d’anni 70,
Angelo Pannello d’anni 40,
Nicola la danza fu Filippo d’anni 60,
Giuseppe Francesca d’anni 50,
Filippo ladanza d’anni 70,
Merina ladanza d’anni 70,
Antonio Caporaso d’anni 75,
Carmine Caporaso d’anni 75,
Carmine Caporaso fu Andrea d’anni 58,
Pietro Orlacchio d’anni 70,
Andrea Caporaso fu Pasquale d’anni 40,
Nicola Mazzone d’anni 60,
Luigi Caporaso fu Carmine d’anni 50,
Nicola Ciotta d’anni 70,
Pellegrino Caporaso fu Bartolomeo d’anni 70,
Alessio Ciotta d’anni 45,
Angelo Caporaso d’anni 48,
Francesco Borzelleca d’anni 70,
Angelo Ciotta d’anni 75,
Vincenzo Barbato d’anni 48,
Nicola Orlacchio d’anni 34,
Gennaro Orlacchio d’anni 70,
Bartolomeo Gravano d’anni 65,
Antonio ladanza d’anni 68,
Domenico Francesca d’anni 75,
Il 31 luglio 1892 la provincia di Benevento venne divisa in 3 circondari, 20 mandamenti e 73 comuni. Campoli venne aggregata al circondano di Benevento ed al mandamento di Vitulano. Il resto è storia dei giorni nostri.
Padre Domenico Eugenio Tirone (fonte)